(Prefazione al libro “La memoria di Sciascia” di Federico Campbell. Ipermedium Libri. 2014)

A quasi un quarto di secolo dalla scomparsa di Leonardo Sciascia, questo libro dello scrittore messicano Federico Campbell, con la raccolta dei saggi e degli articoli pubblicati nell’arco di quindici anni, ci offre l’occasione di una rilettura critica dell’intera sua opera letteraria e ci invita ad una riflessione, oggi più che mai opportuna e necessaria, sull’importanza che essa ha avuto nella letteratura italiana ed europea e nella vita politica e civile del nostro paese. Perché Sciascia è stato durante tutta la sua vita e in tutta la sua opera scrittore politico. Lo è stato più di qualsiasi altro uomo di lettere del suo tempo, più di Italo Calvino, più di Elio Vittorini, più dello stesso Pierpaolo Pasolini. Scrittore politico per eccellenza e non certo per i suoi contrastanti rapporti con il PCI o per essere stato per un breve periodo consigliere comunale a Palermo e poi, nella legislatura 1979-1983, deputato radicale ma perché tutti i suoi libri – non solo gli articoli, i saggi, i pamphlet ma anche i romanzi e i racconti – sono sempre attraversati dagli interrogativi, dalle gravi questioni etico-politiche che riguardano la vita del paese e il governo della polis: i rapporti fra il Potere (i poteri) e i cittadini, fra lo Stato e il diritto, fra la verità e l’impostura.

E strano che questa sua qualità di scrittore politico non si ritrovi fra le molte definizioni che di lui sono state date: da quella, perfino scontata, di “scrittore illuminista” per il suo costante riferirsi ai valori dell’enciclopedia, e in particolare a Voltaire e a Diderot, a quella discussa di “scrittore barocco” (che Belpoliti riprende da Calvino), a quella singolare che Campbell in questo libro riprende da Bufalino di “scrittore secco” per la sua straordinaria concisione letteraria contrapposta a quella di “scrittore umido” che Bufalino attribuiva ad altri letterariamente più ridondandi scrittori ed anche a sé stesso.

E’ come se gli estimatori di Sciascia ritenessero che la sottolineatura della politicità della sua opera potesse concorrere ad offuscarne o a sminuirne in qualche misura la grandezza letteraria. Se fosse così si tratterebbe di una preoccupazione sbagliata perché politicità e qualità artistica e letteraria nell’opera di Sciascia vanno di pari passo e si alimentano a vicenda ma sarebbe anche una preoccupazione inutile perché proprio per la sua politicità ogni suo libro ha profondamente diviso sia l’opinione pubblica sia la stessa società letteraria. E’ forse in base a queste preoccupazioni che Piero Citati, pur riconoscendone la qualità e la grandezza, è giunto ad affermare che dalla sua opera bisognerebbe cancellare “l’ultimo Sciascia (allo stesso modo del primo Calvino)” per essersi esposto troppo nell’agone politico. A Citati però bisognerebbe chiedere dove secondo lui comincia l’ultimo Sciascia: comincia con L’Affaire Moro o bisogna risalire molto più indietro a Il Contesto, a Todo Modo, a Candido? D’altronde l’autore di questi romanzi non è affatto “l’ultimo Sciascia” perché, dopo L’Affaire Moro, scrisse ancora saggi, racconti, romanzi che occupano una parte del secondo volume e quasi per intero il terzo volume delle “Opere complete”, edite da Bompiani e curate da Claude Ambroise.

In altra circostanza ho riconosciuto il mio debito nei confronti di Leonardo Sciascia per l’influenza che i suoi libri hanno avuto nella mia formazione culturale, sentimentale e politica fin da quando, giovanissimo, mi imbattei all’inizio degli anni ’60 ne Le Parrocchie di Regalpetra e in Morte dell’Inquisitore, molto prima dunque che le vicende politiche dei tardi anni ’70 e dei primi anni ’80 ci facessero trovare dalla stessa parte e perfino nello stesso gruppo parlamentare radicale. Il messicano Campbell, che ha studiato e amato lo scrittore siciliano fino al punto di servirsi anche dalle sue lenti per leggere alcuni aspetti della realtà del Messico, conosce perfettamente le sue vicende politiche e letterarie e tuttavia, non influenzato dalle polemiche e dalle strumentalizzazioni italiane che le hanno accompagnate, ci restituisce l’immagine di uno scrittore eretico che in tutta la sua vita si confronta con una realtà siciliana e italiana rimasta, a sinistra non meno che a destra, profondamente controriformista e lo fa seguendo sempre la stessa ispirazione ideale. Ed esprime un’opinione uguale alla mia: “Non c’è opera di Sciascia che non sia politica. E’ un autore politico. E’ uno storico. E’ un romanziere. E’ uno scrittore” (Capitolo 4. Le stesse inquisizioni).

Non c’è soluzione di continuità fra il primo e l’ultimo Sciascia, fra lo Sciascia di Le parrocchie di Regalpetra, di Morte dell’Inquisitore, del Giorno della civetta, di A ciascuno il suo e lo Sciascia di Todo modo, del Contesto, di Candido, dell’Affaire Moro, fra lo Sciascia di prima della rottura con il PCI e lo Sciascia di dopo la rottura con il PCI. E infatti Alberto Asor Rosa ha spinto il proprio dissenso e la propria censura fino al punto di pretendere di cancellarne l’intera opera dalla storia della letteratura italiana. E un mediocre sociologo che non merita di essere citato, assurto per meriti giustizialisti agli onori della politica, dopo le polemiche sulla mafia dei primi anni ottanta ha sentito il bisogno di coinvolgere nella propria polemica e nella propria condanna anche il primo Sciascia del Giorno della civetta e di A ciascuno il suo, inventandosi un eccesso di compiacenza nei confronti dei protagonisti mafiosi dei due romanzi con i quali per primo affrontò il tema, fino ad allora negato o misconosciuto, dell’esistenza della mafia e dei rapporti oscuri fra classi dominanti, potere politico e criminalità mafiosa.

Con le sue scelte e prese di posizione politiche, ma soprattutto con i suoi libri, Sciascia ha diviso anche il suo campo. E non solo la sinistra, quella sinistra a cui ha fatto sia pure con grande autonomia e spirito critico a lungo riferimento perché in essa si riconoscevano le famiglie dei “carusi” che avevano frequentato le sue lezioni di maestro elementare a Racalmuto e gli operai delle solfare, la cui vita e le cui sofferenze conosceva da vicino per aver frequentato la solfara gestita da suo padre; divise anche il suo campo culturale, l’intellighentia laica, “liberal”, non inquadrata e non inquadrabile negli apparati, sempre oscillante fra il sostegno ai governi centristi o di centro-sinistra e il sostegno offerto al PCI magari attraverso la cosiddetta “sinistra indipendente”.

La prima rottura, a lungo maturata tra il colpo di stato cecoslovacco del 1968 (si pensi alla dedica della Controversia liparitana ad Alexander Dubcek, indicato con le iniziali A.D.) fino alla proposta berlingueriana del “compromesso storico”, si manifestò pienamente nei confronti della politica della fermezza e al momento delle trattative per la formazione del Governo di unità nazionale del 1976 ed esplose durante il “caso Moro”. A causa di essa Sciascia divenne l’obiettivo di una feroce campagna polemica da parte del PCI e degli intellettuali più vicini al PCI, che lo indusse nel 1979 ad accettare la proposta di Marco Pannella di presiedere le liste radicali nelle elezioni politiche. Durante tutto questo periodo trovò però al suo fianco, oltre ai radicali, anche personalità come Norberto Bobbio, Dario Fo, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Bocca per citare solo alcuni dei nomi più significativi. Questa coincidenza di posizioni e questa vicinanza politica vennero però meno quando Sciascia, che non era un garantista a senso unico, si trovò a sostenere negli anni ’80 gli stessi principi che aveva sostenuto al momento del confronto con il terrorismo rosso e nero, per contrastare i poteri eccezionali che vennero invocati nella lotta alla mafia.

Non intendo attribuire a lui sentimenti miei. Parlerò quindi per me. Questa seconda rottura fu particolarmente dolorosa perché avveniva con personalità della sinistra democratica che ci erano state vicine e ci avevano sostenuto nelle nostre lotte per i diritti civili: Bobbio con i suoi scritti filosofici su socialismo democratico e comunismo aveva influenzato fortemente la nostra formazione, Alessandro Galante Garrone aveva fatto parte con Loris Fortuna della presidenza della Lega Italiana del Divorzio, quando fui arrestato per la disubbidienza civile contro il reato d’aborto uno dei primi telegrammi che mi giunse in carcere recava le firme di Dario Fo e Franca Rame. Le posizioni di Sciascia e dei radicali, condotte in difesa dello Stato di diritto e della legalità democratica in condizioni di minoranza, avevano fatto emergere il persistere all’interno della sinistra democratica, liberalsocialista e azionista ed anche all’interno del liberalismo italiano di una componente giacobina che da allora in poi ha fortemente influenzato la politica e la magistratura, imponendo soluzioni che sono state definite “giustizialiste” in contrapposizione al garantismo ma hanno poco a che fare con la giustizia e la legalità, anzi hanno nell’ultimo quarto di secolo largamente contribuito a devastarle.

E’ significativo che le aspre polemiche che accompagnarono le due rotture fossero innescate da due falsi, che lungi dall’esprimere il suo pensiero ne rappresentavano al massimo un grossolana estremizzazione. Nel 1977/78 gli fu attribuita una frase – “Né con lo Stato né con le Bierre” – che non aveva mai pronunciata (certo non con le B.R., ma – era la legittima domanda – “con quale Stato?”. La seconda rottura fu provocata da un articolo sul “Corriere della Sera” in cui criticava i criteri improvvisamente modificati per la scelta dei capi delle Procure, che dovevano occuparsi di criminalità mafiosa: gli fu rinfacciata la frase “I professionisti dell’antimafia” che non compariva nel testo del suo articolo ed era invece il titolo scelto dalla redazione del Corriere. In entrambi i casi Leonardo Sciascia, al pari dei radicali, fu accusato nella migliore delle ipotesi di equidistanza fra lo Stato e le Bierre e fra lo Stato e la mafia ma molti si spinsero oltre fino al punto di ipotizzare una vera e propria contiguità con le prime e con la seconda. Imperdonabili infamie se solo si pensi alla distanza siderale che separava l’illuminista Sciascia e i nonviolenti radicali dal rozzo e violento stalinismo delle Brigate Rosse e al fatto che nei primi anni sessanta era stato nei suoi romanzi il primo uomo di lettere ad occuparsi di mafia e della collusione fra essa e il potere. L’illuminista Sciascia, che si scoprì antigiacobino, semplicemente pensava che contro i tentativi eversivi delle Bierre come contro la criminalità mafiosa lo Stato dovesse combattere in nome del diritto e dei propri principi costituzionali senza cedere, a causa dell’emergenza, a leggi e politiche eccezionali. Nessuna emergenza può giustificare la sospensione delle libertà individuali come delle garanzie giuridiche e costituzionali, se non a prezzo di un abbassamento dello Stato allo stesso livello dei criminali che deve combattere.

Allo stesso modo, durante e dopo il sequestro dell’On. Moro, per la sua polemica contro la politica della fermezza fu iscritto d’ufficio nel “partito della trattativa”. In realtà anche a rileggere oggi le parole di Sciascia appare chiaro come fossero rivolte a sollecitare non un cedimento ma una maggiore iniziativa nelle indagini e nei rapporti mediatici nei confronti delle B.R., impedita dalla conclamata fermezza della Stato che si traduceva purtroppo in inerzia e nella attesa immobile, fatalistica della morte di Moro. Sciascia infatti non mancò di manifestare la propria opposizione e di denunciare la contraddizione della DC quando, qualche tempo dopo, i suoi dirigenti accettarono di trattare per la liberazione dell’ assessore regionale Cirillo sequestrato in Campania. E mostrò cosa si dovesse intendere per politica di iniziativa nei confronti delle B.R. quando contribuì invece con i radicali a creare le condizioni per la liberazione di un altro sequestrato, il giudice D’Ursoi1 , che avvenne senza cedimenti, senza concessioni, ma attraverso un’iniziativa politica e mediatica e un confronto polemico condotto sotto gli occhi dell’opinione pubblica grazie ai microfoni di Radio Radicale e ad alcuni giornali e telegiornali che ebbero il coraggio di rompere un assurdo silenzio stampa. Quell’iniziativa, nella quale Sciascia si espose senza riserve, ruppe dunque l’unità corporativa dei giornalisti ma provocò anche una rottura fra i brigatisti in carcere e i terroristi che avevano operato il sequestro, che si rivelò determinante per la salvezza del giudice.

Sicilia e Messico: una comune ascendenza spagnola

Leonardo Sciascia suscitò con i suoi libri molto presto uno straordinario interesse in tutti i paesi latini, sia europei (Francia e Spagna) sia americani soprattutto di lingua spagnola ma anche in Germania e in Svizzera. Ebbe invece minore successo, nonostante le numerose traduzioni, nei paesi anglosassoni e nei paesi del nord Europa e questo si spiega forse con le diversità storiche e culturali, marcate dalle divisioni fra Riforma e Controriforma ma anche con le diverse caratteristiche di quelle più collaudate e pragmatiche democrazie e con il diverso funzionamento dei loro sistemi giudiziari.

Il libro di Federico Campbell, che ha avuto in Messico tre edizioni e che ora Ipermedium libri propone al pubblico italiano nella traduzione di Elena Trapanese, è al contempo la testimonianza di questo interesse e della straordinaria corrispondenza che lo scrittore siciliano ha suscitato non solo nel giornalismo ma anche in tanti scrittori e critici letterari di altri paesi divenuti poi diffusori della conoscenza della sua opera. Esso ripercorre l’intera produzione letteraria di Leonardo Sciascia con una serie di interventi che non contengono solo recensioni ma riflessioni e approfondimenti critici su temi ossessivamente ritornanti nei suoi saggi, nei suoi racconti, nei suoi romanzi. Su alcuni di essi c’è una particolare assonanza, una profonda affinità fra l’autore del libro e “il Maestro di Regalpetra”, come nella sua bella biografia Matteo Collura chiama lo scrittore siciliano. A cominciare dal tema che dà il nome al libro: “La memoria di Sciascia” non è infatti solo un invito al ricordo e alla rilettura ma è anche un esplicito riferimento all’importanza che la memoria ha sempre avuto nella sua riflessione letteraria e nella scelta degli argomenti e delle ricerche storiche che costituiscono l’oggetto della sua narrazione. A “La memoria” era intitolata infatti la collana che lui diresse per la casa editrice Sellerio, alla cui nascita e al cui successo dette un contributo determinante. E “A futura memoria (se la memoria ha un futuro)” è il titolo di uno dei suoi ultimi libri.

In tutta l’opera di Sciascia – sul modello manzoniano de La Storia della colonna infame la memoria dell’ingiustizia e l’analisi delle sue cause, anche e tanto più quando riguardino casi apparentemente minori e per questo più facilmente dimenticabili, costituiscono il presupposto per potere sperare di sconfiggere nella società il fanatismo e l’intolleranza e di conseguire, di conquistare nel rapporto fra il potere e i cittadini un livello superiore di civiltà giuridica e il pieno rispetto dei principi dello Stato di diritto quando essi siano palesemente calpestati dalle democrazie occidentali in stridente contrasto con le loro stesse costituzioni e con i diritti umani. “Si direbbe – scrive Campbell, riferendosi a I pugnalatori e a Dalle parti degli infedeli – che il metodo sciasciano consista nel sollevare le pietre occulte della storia – o di una piccola, grave storia oscuratasi – e nel tornare a collocarle affinché sia il lettore a smontarle”. E da queste sue indagini sul passato e lo scrupoloso riesame delle fonti deriva “uno stile notarile che sembra eludere l’allegria, il gusto ludico per la parola, e il non volere fare letteratura delle cose. Al contrario: deletteraturizzarle, deideologizzarle”.

E’ nel rapporto tra memoria e storia che affonda le proprie radici il rapporto fra potere e diritto e fra impunità e Giustizia. Se per Sciascia la Sicilia è metafora di un mondo assai più vasto dell’isola nella quale è nato e vissuto, per Campbell ciò che avvicina la Sicilia di Sciascia al suo Messico è la comune ascendenza dalla dominazione spagnola e l’importanza che in essa ebbe la Santa Inquisizione. E a differenza che in Francia e In Italia, dove il sistema giudiziario di tipo inquisitorio giunse attraverso i codici napoleonici ( non deve stupire che, messa in atto da un sistema autoritario, la riforma che avrebbe dovuto sostituire l’Ancien Regime, ne riproponesse invece, laicizzandolo, uno degli istituti più discussi), in Messico e nella intera Nuova Spagna dell’ottocento lo stesso sistema inquisitorio derivò invece direttamente dal Santo Uffizio. Per altro il Consiglio Supremo dell’Inquisizione fu una specie di organo della monarchia spagnola, dalla quale dipendeva, più che un organismo della Chiesa.

In Messico – ci spiega Campbell – il Pubblico Ministero dipende direttamente dall’Esecutivo e solo nella sua fase conclusiva il processo conosce il giudizio di un magistrato indipendente e il rito inquisitorio si trasforma, con somma ipocrisia, in sistema accusatorio. Ciò comporta che per tre quarti del processo il cittadino sia sottoposto al potere dell’esecutivo e alle indagini della polizia (in realtà la percentuale è molto maggiore se si considerino le inchieste che si fermano alla fase preliminare o si concludono con archiviazioni). In Italia la situazione è solo apparentemente diversa. La Costituzione del ’48 ha infatti stabilito, con l’istituzione del Consiglio superiore della magistratura, l’autogoverno dell’ordine giudiziario al quale appartengono anche i magistrati del P.M. e, negli anni ’80, una riforma introdusse nel processo penale il rito accusatorio che tuttavia subì successivamente numerose eccezioni. Poiché la situazione non è da allora affatto cambiata e la giustizia italiana è nota per la durata dei suoi processi e per il suo pessimo funzionamento, in Messico come in Italia il problema torna all’essenziale: alla natura del potere, di qualsiasi potere, anche quello giudiziario, e all’arbitrio che comunque ne deriva quando venga esercitato al di fuori di ogni controllo e di ogni garanzia.

Quello della Giustizia e, per usare un eufemismo, del suo malfunzionamento non è il solo campo in cui Campbell scorge una profonda somiglianza fra la situazione del Messico e quella dell’Italia. Entrambi i paesi hanno costituzioni liberaldemocratiche abbastanza avanzate per l’epoca in cui furono rispettivamente concepite e votate, quella messicana adottata dopo la rivoluzione avvenuta all’inizio del novecento, quella italiana dopo la guerra, la caduta del fascismo, la Resistenza e tuttavia entrambi sono rimasti molto a lungo bloccati senza conoscere forme di alternanza democratica e mai raggiungendo la condizione di democrazie mature. Il Messico per tutto il Novecento è stato governato da un partito che ha sempre preteso di rappresentare i principi della Rivoluzione e si chiamò per questo Partito Rivoluzionario Istituzionale (vera e propria contraddizione in termini), solo nel 2001 cedendo il potere – per una parentesi di 12 anni – all’opposizione di centro-destra guidata prima dal Presidente Fox e poi dal Presidente Calderòn. L’analogia con i governi democristiani che hanno governato a lungo l’Italia nella seconda metà del secolo scorso, sia pure in concorso con i socialisti e altri partiti minori, è impressionante. Nel laicissimo Messico come nella cattolica Italia la fossilizzazione del potere e l’assenza di fisiologiche alternative democratiche hanno dato vita a forme anomale di vero e proprio “Regime” (non nel senso totalitario del termine) e, nonostante le diversissime condizioni storiche, politiche e geografiche, quando forme di alternanza si sono dopo lunghissimo tempo imposte, in Italia con Berlusconi, in Messico con Fox, non potevano non risolversi in un fallimento e nell’aggravamento della situazione dei due Stati.

Nella seconda metà del secolo scorso inoltre la storia del Messico al pari di quella italiana è stata funestata da una serie di delitti, di massacri, di incidenti, di stragi, le cui responsabilità coinvolgevano o potevano coinvolgere il potere politico e che per questo sono rimasti crimini senza colpevoli, avvolti nel dubbio e nel mistero, privi di sanzione giudiziaria. Un capitolo del libro dal titolo “Non si saprà mai” ( da una citazione di Sciascia) sembra richiamare il famoso articolo “Io so” con il quale P.P. Pasolini, sul Corriere della Sera, individuava nel “Palazzo”, simbolo del potere, e nei suoi occupanti le responsabilità dei misteri e delle stragi italiane, pur avvertendo di non averne le prove. Sotto questa convinzione – “Nessuna verità si saprà mai” – Campbell alterna un lungo elenco di misteri e stragi italiane (dalla strage di Portella delle Ginestre all’avvelenamento di Gaspare Pisciotta, dall’incidente dell’aereo di Enrico Mattei alla strage di Piazza Fontana) a un gran numero di misteri, omicidi politici, veri e propri massacri messicani (dall’omicidio di Manuel Buendia a quello di Hector Felix Miranda, entrambi giornalisti, ai massacri di San Cosme del ’71, di El Mareno-Michoacan, di Rio Muerto, di Topilejo, ai dubbi incidenti aerei di Carlos Madrazo e di Alfredo Bonfil), avvenimenti tutti che ebbero eco limitata in Italia e in Europa e che probabilmente hanno un flebile ricordo anche nelle ultime generazioni del Messico.

Nel frattempo, dall’inizio del nuovo millennio, la situazione in quel paese non è migliorata ma peggiorata a causa dell’esplosione del devastante fenomeno criminale e sociale del narco-traffico, che negli ultimi venti anni, in America Latina, ha spostato il centro del proprio insediamento dalla Colombia al Messico. Interi territori in alcuni stati messicani sfuggono al controllo dello Stato e una terribile guerra silenziosa e da tutti rimossa ha lasciato sul terreno migliaia di morti: cifre forse esagerate parlano di cento mila, comunque si tratta di decine di migliaia. Questa situazione, per noi italiani non completamente nuova, fatte le debite proporzioni fra la nostra penisola e un paese federale di dimensioni sub continentali, ha comportato numerosi casi di complicità fra potere politico, di destra e di sinistra, e narcotraffico e una enorme diffusione della corruzione. Anche le ultime politiche del 2012, che hanno riportato al potere il candidato del tradizionale partito di governo, sono state accompagnate dalle polemiche per la distribuzione in alcune aree elettorali di carte prepagate. Inevitabile l’interrogativo (da dove provenivano i soldi?) e il sospetto che costituissero un oculato investimento politico dei clan mafiosi del narcotraffico.

Ma se queste analogie politiche e sociali contemporanee contribuiscono a chiarire i contorni del quadro, le ragioni profonde dell’affinità che gli fa scoprire e amare Sciascia e lo spingono a leggerne, commentarne e diffonderne le opere, sono tutte culturali e affondano nella storia passata dei due paesi. “Se c’è un clima mentale somigliante tra Messico e Sicilia – spiega lo stesso Campbell nel primo capitolo – forse si deve al fatto che abbiamo in comune, Sicilia e Messico, un similare passato spagnolo: la Santa Inquisizione, una certa eredità araba che a noi arriva dalla Spagna, e la lingua, l’atteggiamento giudaico-cristiano di fronte alla sessualità, la fantasia per la vendetta e la bandiera tricolore garibaldina.” E per questo la particolare sensibilità ispano-messicana che accompagna sempre, in ragione di questa affinità, il suo interesse, lo spinge a valorizzare nel firmamento letterario di Sciascia (“ Un sistema solare”), accanto agli italiani e ai francesi, i suoi ispiratori di lingua e cultura spagnola: innanzitutto il contemporaneo Borges, e poi naturalmente Cervantes, e Calderón de la Barca, Lorca, Cernuda, Pedro Salinas, e José Ortega y Gasset, e ancora: Unanumo, Manuel Azana, Américo Castro, Moreno Villa. Per gli stessi motivi richiamerà più volte nel suo libro i riferimenti alla guerra civile spagnola che ebbe un ruolo assai importante nella prima formazione antifascista dello scrittore siciliano, quando vide partire a migliaia alla volta della penisola iberica braccianti e disoccupati della sua isola, arruolati e assoldati dal governo fascista come “volontari” a dar man forte alle truppe del Gen. Franco che combattevano contro la Repubblica.

L’Universo narrativo di Sciascia

Il libro di Campbell esplora l’universo narrativo di Sciascia non solo nei suoi contenuti artistici, ideali ed etico politici ma anche nelle sue scelte formali, con un costante riferimento, nell’approfondimento dei primi come delle seconde, a quel Pantheon di letterati che costituiscono il suo “sistema solare” e la sua fonte di ispirazione: da Manzoni a Montaigne, da Stendhal a Victor Hugo, da De Roberto e Verga, da Voltaire e gli altri enciclopedisti francesi a Gogol, da Pirandello a Vitaliano Brancati, da Savinio a Borgese, accanto agli ispanici già citati: ”stelle che rifulgono di luce propria, di maggiore o minore magnitudine”.

In questa esplorazione, due capitoli sono dedicati alla riflessione critica sulle tecniche narrative scelte dallo scrittore siciliano: quella del romanzo inchiesta di ambiente giudiziario (cap. V del libro) e quella che ripropone e utilizza in maniera originale la formula del romanzo poliziesco (Cap.VIII). Il primo procedimento – che porta lo scrittore “a rispolverare e riesaminare fascicoli giudiziari in tribunali penali, agenzie del Pubblico Ministero o archivi dell’Inquisizione, verbali della polizia, notizie giornalistiche nelle emeroteche – è quello che traspare in Morte dell’Inquisitore, Il Consiglio d’Egitto, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, La scomparsa di Majorana, I pugnalatori, L’Affaire Moro, Dalle parti degli infedeli, Il Teatro della memoria, La strega e il capitano, 1912+1” (ed io aggiungerei i racconti pubblicati sotto il titolo apparentemente minimalista di Cronachette): tutti casi riesumati da un passato più o meno lontano, strappati alla rimozione e alla dimenticanza, nei quali la fantasia romanzata sembra cedere il passo alla nuda cronaca. Ma la rilettura di questi fatti da parte di Sciascia non deve essere confusa con quella di un giornalista, di uno storico o di un giurista, è sempre una rilettura letteraria allo stesso modo del Manzoni de La storia della colonna infame “che per primo prefigurò il genere del moderno romanzo inchiesta di ambiente giudiziario”. La ispirazione che lo spinge ad indagare su fatti del passato, a volte grandi e significativi, a volte apparentemente minimi, è spiegata dallo stesso Sciascia in una citazione di Campbell: “Il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato e dobbiamo continuamente viverlo nel presente se vogliamo essere davvero storicisti. Il passato che non c’è più – l’istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione – s’appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La tortura c’è ancora, E il fascismo c’è sempre.”

La tecnica narrativa del tradizionale romanzo poliziesco si affida invece alla finzione, alla fantasia romanzata. Sciascia se ne avvale non per disvelare i mali, gli errori del passato ma per indagare sui mali, sui crimini, sulle croniche, sistematiche illegalità del presente. L’impianto narrativo che lo scrittore utilizza è quello classico del romanzo poliziesco: c’è sempre un delitto o più delitti e c’è sempre un investigatore. In alcuni romanzi è un investigatore professionale (il capitano Bellodi del Giorno della civetta, il commissario Rogas del Contesto), in altri si tratta di un osservatore inizialmente quasi casuale che via via si trova a divenire protagonista di una sorta di indagine alternativa al fine di scoprire la verità (il professor Laurana di A ciascuno il suo, il pittore narratore di Todo Modo). Nei suoi romanzi polizieschi tuttavia, il canone del tradizionale romanzo giallo viene completamente rovesciato. L’autore dell’inchiesta, l’investigatore, qui non ne è il trionfatore, colui che dopo varie vicissitudini e a prezzo di gravi rischi scopre la verità e immancabilmente assicura alla giustizia l’autore o gli autori del delitto. Nei romanzi di Sciascia il capitano Bellodi sarà sconfitto dal mafioso Mariano Arena e trasferito dai superiori lontano dalla Sicilia. L’eroe di A ciascuno il suo, il professor Laurana, sarà ucciso proprio perché si è avvicinato troppo alla verità e avrà nelle chiacchiere da bar dei notabili un impietoso e cinico epitaffio (“era un cretino”). Muore anche nel Contesto il commissario Rogas a cui sarà addirittura attribuita, in un orchestrato omicidio-suicidio deciso nelle stanze del potere, la responsabilità dell’uccisione del segretario del Partito Rivoluzionario Internazionale (chi sa se la coincidenza delle prime due parole e della sigla del messicano Partito Rivoluzionario Istituzionale è stata voluta).

Il rovesciamento del canone non si ferma qui. Matteo Collura in “Alfabeto Sciascia” 2 ricorda che fu Moravia a cogliere per primo “l’essenza del pirandelliano procedere” di Sciascia: “il racconto comincia con la chiarezza (si sa benissimo chi ha ucciso) e finisce con il mistero (non si sa affatto chi ha ucciso)”. E’ stato lo stesso Sciascia a spiegare che, alla maniera in cui Faulkner sosteneva di aver introdotto la tragedia greca nel romanzo poliziesco,”di me si potrebbe dire che ho introdotto il dramma pirandelliano nel romanzo poliziesco”. E questo è giustamente il titolo che Campbell sceglie per il suo Capitolo VIII che è un po’ il momento centrale e forse più significativo della sua riflessione critica sullo scrittore siciliano. Nonostante il titolo, esso non contiene alcuna analisi dei romanzi polizieschi di Sciascia, affrontate e trattate in altri capitoli, al contrario comincia come un saggio su Pirandello e si snoda poi come un saggio critico sui rapporti fra Sciascia e Pirandello.

La lettura da parte di Sciascia dell’opera di Pirandello – nella Corda pazza, in Pirandello e il pirandellismo, in Pirandello e la Sicilia e da ultimo in Alfabeto pirandelliano è una lettura rigorosamente realista che esclude ogni interpretazione idealistica come ogni riduzione alle teorizzazioni del teatro dell’assurdo: realista nel senso di quel “pirandellismo di natura” nel quale dichiara di essersi sentito immerso fin da adolescente nella sua Racalmuto: “…io ho vissuto e vivo dentro una realtà pirandelliana, dentro un pirandellismo, per così dire, di natura. Un gioco di contrasti e di conflitti, di dilacerazioni che anche nella mia famiglia ha avuto tragiche declinazioni” (e il pensiero va al suicidio del fratello, di cui afferma di non aver mai compreso i motivi o alla tragica morte del padre narrata nella biografia di Matteo Collura). “Mi sono sempre sentito sospeso nel baratro dell’irrazionale e da questa condizione ho tratto forza per tenermi alla ragione. Non senza disperazione in certi momenti della mia vita….”. “ Così – dirà altrove in una intervista, citata sempre da Campbell – per uscire dal dramma mi sono afferrato alla ragione, all’altra faccia delle cose, scivolando verso una nevrosi della ragione, una ragione che confina con la non ragione”. E qui mi sembra che l’autore messicano, proprio trattando del rapporto fra Sciascia e Pirandello, colga una verità importante che altri critici italiani e stranieri hanno intuito ma che a mio parere solo Marco Belpoliti3 ha esplicitamente affrontato, a proposito del momento più critico della produzione letteraria di Sciascia, quello della pubblicazione de L’Affaire Moro: che l’illuminismo4 di Sciascia non è mai una facile via di fuga dalla sua condizione esistenziale e dai demoni che insidiano la sua vita e quella della sua terra e del suo paese ma è al contrario una tensione ideale e morale che nasce dalla consapevolezza di una drammatica e proprio per questo vitale contraddizione.

L’incorporazione del dramma pirandelliano nel romanzo poliziesco – con l’intrecciarsi di realtà e finzione e il confondersi ambiguo dell’essere e dell’apparire, della maschera e del volto – consente a Sciascia di gettare fasci di luce e di verità nel fitto mistero che circonda i fatti criminosi che costituiscono l’oggetto della narrazione nei suoi romanzi polizieschi e di comprendere con grande anticipo dove avrebbero portato e cosa avrebbero prodotto i processi degenerativi della democrazia italiana. Il Contesto è del 1971, tre anni prima che Berlinguer formulasse la sua proposta strategica del compromesso storico. Todo modo è del 1974, quattro anni prima del sequestro e della morte di Aldo Moro. Non ricordo di quale dei due romanzi o se di tutti e due, disse che aveva cominciato a scriverli con divertimento e poi, man mano che la narrazione prendeva forma, il divertimento era venuto meno, non aveva affatto più voglia di divertirsi. I fatti tragici della seconda metà degli anni settanta hanno indotto Sciascia e i suoi critici a mettere questi due romanzi, che gli procurarono la fama di scrittore profetico, in relazione a L’Affaire Moro quasi a conclusione di un unico ciclo. In realtà, nelle intenzioni di Sciascia, se davvero di un ciclo si poteva parlare, la sua conclusione doveva essere forse affidata alla pubblicazione di Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, omaggio a Voltaire, che avrebbe dovuto costituire una sorta di uscita liberatoria dalla opprimente immersione nelle vicende dei due maggiori partiti italiani e allo stesso tempo una ironica e pacificata presa di distanza dal PCI: speranze e propositi che furono spazzati via dal sequestro e dall’omicidio dell’On. Moro. ”Scrivere sulla vicenda di Moro – ha detto Giulio Ferroni – è stata per lui una necessità, quasi una costrizione letteraria determinata dal fatto di aver scritto Il Contesto e Todo modo, di aver visto verificarsi sulla scena dell’Italia contemporanea eventi e situazioni di cui quei due romanzi sembravano contenere l’annuncio, i segni baluginanti, come in uno splendere e insieme eclissarsi della luce della verità. Insomma in quei libri (sia nelle loro pieghe segrete, sia nella loro più ampia prospettiva), c’era come il presentimento, la prefigurazione dell’Affaire Moro…”.5

Sciascia ha sempre respinto il ruolo profetico che gli è stato attribuito, rivendicando a sé il merito di aver solo saputo leggere per tempo la realtà: “Nel vuoto di riflessione e di critica, perfino di buon senso in cui la vita politica italiana si è svolta, le sintesi non potevano che apparire anticipazioni, se non addirittura istigazioni. Lasciata insomma alla letteratura la verità, la verità – quando dura e tragica apparve nello spazio e non fu più possibile ignorarla o travisarla – sembrò generata dalla letteratura”.6 Non profezie dunque ma due “sintesi” , frutto di una capacità di analisi e di visione letteraria e politica, spinta alle sue estreme conseguenze, di ciò che avevano rappresentato nella storia della politica italiana il lungo monopolio del governo da parte della DC e il contrapposto monopolio dell’opposizione esercitato dal PCI. Di quel blocco della democrazia, a cui Sciascia attribuiva la responsabilità della nascita e dello svilupparsi del terrorismo, paghiamo ancora oggi le conseguenze in forme sempre più gravi di distruzione dello Stato di diritto e di iiillegalità.

Accanto alle due tipologie del romanzo-inchiesta e del romanzo poliziesco, nei suoi scritti più aspri e polemici (Polemos è il titolo che significativamente Claude Ambroise sceglie per la sua introduzione al secondo volume delle “Opere complete”), Sciascia fa anche ricorso alla formula narrativa del Pamphlet secondo i modelli ottocenteschi di Paul Courier, le cui accuse ai governi della Restaurazione aveva avuto l’opportunità di leggere giovanissimo a Racalmuto, e di Emile Zola e a quella del Diario pubblico, per il quale si affiderà invece all’esempio di Vittorini. Tali devono essere considerati Nero su Nero (il nero dell’inchiostro sulle pagine più nere e tragiche della nostra Repubblica) e A futura memoria .

L’Affaire Moro, che nel titolo richiama L’Affaire Dreyfus, è senza alcun dubbio un romanzo inchiesta. Come tale, al pari degli altri sopra citati, è la riscrittura letteraria di fatti già scritti nelle cronache giornalistiche e parlamentari prima ancora che giudiziarie: la riscrittura dei 55 giorni del sequestro Moro attraverso l’analisi delle sue lettere fatte recapitare dalle B.R. e indirizzate ai dirigenti del partito di cui era tuttora presidente, ai familiari, perfino al Papa Paolo VI, dei comunicati delle stesse Bierre che alternavano minacce a richieste e condizioni e infine delle dichiarazioni, le prese di posizione e le risposte degli uomini politici a cui il prigioniero inutilmente si era rivolto. Ma è anche un Pamphlet, polemico, polemicissimo contro la politica della fermezza con cui gli organi dello Stato e i partiti della DC e del PCI, a differenza dei socialisti, dei radicali, di una minoranza della stessa DC (Fanfani), avevano deciso di rispondere al sequestro delle B.R. E tuttavia la molla che lo ha indotto a servirsi di questa forma polemica è stata l’indignazione per la tesi sostenuta da amici, colleghi di partito, intellettuali di varia estrazione, secondo la quale il Moro che scriveva dal covo delle B.R. dove era prigioniero non era più la stessa persona che fino a pochi giorni prima avevano riconosciuto come loro leader indiscusso ma era un’altra persona, non più capace di intendere e di volere, che scriveva sotto dettatura nella costrizione dei suoi carcerieri: una tesi comoda che li affrancava perfino dal dovere di cercare quanto il prigioniero dall’oscurità di quel covo e da quelle condizioni di costrizione tentava loro di comunicare. E accanto all’indignazione la pietas : la pietas cristiana con cui il laico Sciascia si interessa al destino di un uomo che non aveva né stimato né amato nella veste di statista quando era al centro del potere democristiano e che, una volta privato del suo potere, abbandonato a sé stesso, prigioniero e già condannato dai suoi carcerieri, nella veste di nuda persona, di uomo solo, di “creatura”, sollecita invece la sua reazione morale, il suo desiderio di difenderne almeno l’identità che è rimasta intatta e che proprio per questo i suoi amici e colleghi pretendono di negare.

Contraddissi e mi contraddissi”

Sciascia scrisse di sé che avrebbe voluto essere ricordato come un uomo che “contraddisse e che si contraddisse”.

Quanto al “contraddisse” e al modo in cui lo fece, soprattutto a partire dalla metà degli anni ’70, c’è poco da aggiungere a quanto in proposito ha scritto Adriano Sofri: “Sciascia aveva avuto da tempo il successo e già Pasolini gli aveva riconosciuto una certa autorità ‘solamente personale, legata cioè a quel qualcosa di debole e di fragile che è un uomo solo’. Sciascia era fisicamente restio fino a passare inosservato e la sua stessa scrittura era frenata e discreta. Era, nello stesso modo del suo successo, un anti-Pasolini. Perciò il cambiamento fu ancora più singolare. Esso venne dopo la morte di Pasolini e, anzi, come una specie di conseguenza di quella. Come se, nel vuoto di quella, Sciascia non avesse premeditato di avanzarsi, ma vi fosse stato attratto e, una volta là, accettasse fino all’oltranza la sfida polemica e la recisione delle opinioni. Lo dichiarò nel 1981: ‘Dicevamo quasi le stesse cose, ma io sommessamente. Da quando non c’è lui mi accorgo di parlare più forte’. Lo Sciascia polemista diventò drastico fino alla rottura dei rapporti personali e s’indusse all’impegno politico diretto prima in Sicilia, poi in Parlamento. Così l’intellettuale più lontano dall’azione e dalla corporeità (qui il paragone è con Pannella e con don Milani. NdR) diventò, quasi per contrasto, sulle stesse colonne del più ufficiale quotidiano, un popolare eccitatore e divisore di coscienze. Dopo non c’è stato molto d’altro”.7

Quanto al “si contraddisse” sono invece possibili più letture e diverse spiegazioni. La più ovvia è che l’espressione alluda ai suoi cambiamenti di opinione e di giudizio, avvenuti nel tempo, e non necessariamente a quelli a cui va immediatamente il pensiero, riguardanti i rapporti con il PCI e il modo di affrontare e combattere la criminalità mafiosa.

Un esempio di questi cambiamenti è, ad esempio, nel giudizio sul Gattopardo. Quando uscì nel 1958 fu uno dei pochi a condividere quello di Elio Vittorini che aveva rifiutato di pubblicarlo nei Gettoni di Einaudi: non perché avesse idee diverse da Tommasi di Lampedusa sul trasformismo ma perché gli sembrava che il romanzo e le parole del Principe di Salina descrivessero una Sicilia in cui nulla accadeva e nulla poteva accadere, condannata all’immobilità per una sorta di maledizione geografico-climatica. Per questo il suo Consiglio d’Egitto fu considerato l’anti-Gattopardo e i suoi protagonisti – l’Abate Vella e il giacobino De Blasi – contrapposti al Principe di Salina e al nipote Tancredi. A distanza di anni dovette constatare che aveva invece ragione (“ ma il fatto che avesse ragione non mi porta a negare che le idee muovano il mondo, soltanto alimenta un po’il mio scetticismo”). Era questo sicuramente un modo di contraddirsi ma all’interno di una coerenza di fondo (sono le idee “a muovere il mondo” e quindi anche l’apparentemente immobile Sicilia).

A mio modesto avviso, lo stesso si può dire di altri più rilevanti e più polemici cambiamenti di opinione. Ad esempio a proposito della mafia. Non c’è uno Sciascia intransigente contro la mafia, che diventa improvvisamente lassista o peggio, come è stato insinuato, connivente nei confronti della mafia. Basta rileggere Il Giorno della civetta per rendersi conto che il Capitano Bellodi, nel momento in cui ha difficoltà a inchiodare alle sue responsabilità il capomafia Arena, respinge la tentazione delle scorciatoie e condanna con decisione i metodi del Prefetto Mori, adottati durante il fascismo. Al contrario invoca e in qualche modo prefigura più efficaci metodi di indagine che potrebbero consentirgli di risalire alle disponibilità finanziarie, penetrando nelle maglie del segreto bancario, allora un tabù per il nostro sistema giuridico, e di colpire i clan mafiosi nei loro patrimoni, anticipando così molto tempo prima la strada che sarà seguita da Falcone e Borsellino e che porterà, con successo, a celebrare il maxi processo di Palermo contro la Cupola di Cosa Nostra. Muta dunque l’obiettivo polemico – alle connivenze della DC e dello Stato si sostituisce l’attacco alle strumentalizzazioni politiche dell’antimafia – ma Sciascia continua a muoversi all’interno della medesima ispirazione e convinzione ideale. E anche se, come ho prima sottolineato, non pronunciò e non scrisse mai la frase “I professionisti dell’antimafia”, coloro che lo avevano attaccato, insultato, indicato al pubblico disprezzo, furono gli stessi che, comportandosi proprio come tali, riuscirono ad impedire la nomina da parte del Consiglio Superiore della Magistratura di Giovanni Falcone a capo della Procura Nazionale Antimafia. “Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte – scrisse poco prima di morire in A futura memoria – con coloro che non credevano o non volevano credere nell’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di aver scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità”.8

C’è tuttavia per quel “si contraddisse”, io penso, una spiegazione più plausibile e una più intima ragione. “ Scrivo su di me, per me e talvolta contro di me” – disse a Marcelle Padovani nel libro-intervista La Sicilia come metafora. “Prendiamo, ad esempio, la realtà siciliana nella quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo ‘con dolore’ e ‘dal di dentro’: il mio ‘essere siciliano’ soffre indicibilmente del gioco al massacro che perseguo. Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro poiché in me, come in ogni siciliano, continuano ad essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così, lottando contro la mafia, io lotto anche contro me stesso, è come una scissione, una lacerazione. Lo stesso avviene per quanto riguarda la donna siciliana: nel mio modo di descriverla e di condannarla c’è anche una condanna di me stesso. Soffro di dover raccontare della donna di Sicilia nel suo ruolo storico, vale a dire come elemento negativo dell’evoluzione della società insulare, nella sua funzione matriarcale, schiacciante e conservatrice, quale ha pesato sui nostri nonni e padri e quale può pesare ancora oggigiorno. Ma nel momento stesso in cui la giudico, io mi sento responsabile della sua condizione, responsabile atavicamente.” 9

Io non so se, per quanto riguarda lo stile letterario, Marco Belpoliti abbia ragione nel definire Sciascia “scrittore barocco” e se questa definizione sia conciliabile con il suo stile “secco” e la sua concisione letteraria. Posso comprendere tuttavia e anche condividere appieno la definizione se il riferimento è alla profonda adesione alla cultura della sua terra e alla identificazione con il sentire del suo popolo, a cominciare dai più umili (i contadini, i minatori, gli artigiani, i braccianti), che da Le parrocchie di Regalpetra in poi traspare in ogni suo scritto. Questo non scalfisce in nulla il suo essere, anche, scrittore illuminista. Ho sempre pensato che la qualità e grandezza di Sciascia sia proprio in questa intima e vitale contraddizione tra l’adesione alla sua terra e alla coltura della sua terra e il suo costante, eretico contrapporvisi in nome di pochi, essenziali valori : la democrazia, la laicità, la tolleranza, una profonda religiosità, la giustizia, il rispetto della dignità umana, la verità.

1 La Pelle del D’Urso. A chi serviva, chi se l’è venduta,come è stata salvata. A cura di Lino Jannuzi, Franco Roccella, Ennio Capecelatro, Valter Vecellio. Edizioni Radio Radicale. Supplemento a Notizie Radicali n.3. marzo 1981.

2 Matteo Collura Alfabeto Sciascia. Longanesi, pag. 148

3 L’UOMO SOLO.L’Affaire Moro di Leonardo Sciascia. A cura di Valter Vecellio. Quaderni Leonardo Sciascia. Edizioni La Vita felice. Dicembre 2002. Pag. 30.

4

L’UOMO SOLO, pag.30

6 Leonardo Sciascia. OPERE (1971-1983). A cura di Claude Ambroise. Bompiani editore. Ottobre 2004.Pag. 409.

7 L’UOMO SOLO. Pag. 48

8 Sciascia OPERE (1984-1989) A futura memoria. Pag. 889 Bompiani editore 2004

9 La Sicilia come metafora. Libro intervista a cura di Marcelle Padovani. Mondadori.1979